“Di me ti posso dire solo che sono sereno e tranquillo come il primo giorno [...]; c’è tanta somiglianza fra una giornata e l’altra, che agevolmente si eludono le differenze, si fanno scomparire gli scomparti delle giornate singole, e tutto si atteggia come una sola giornata che non appare neppure particolarmente lunga, e certo non è né triste né lieta, né solatia né nuvolosa: una giornata neutra, ecco. [...] ho chiesto che mi comprassero I promessi sposi: sarà la prima volta che li leggerò riposatamente e ordinatamente [...]. Oltre a questo che cosa faccio? Seguito a pensare tanto tanto a te”[1]
La commovente lettera di Leone Ginzburg alla madre Vera Griliches, spedita dal carcere giudiziario di Torino durante la prima di molte detenzioni, è una testimonianza potente della “fortuna” che il classico del Manzoni ebbe durante la seconda guerra mondiale grazie alla sua portata eversiva, alla radicale contestazione dei rapporti di forza e alla denuncia contro il potere e la tirannia. Non a caso, nel 1943, sempre Leone Ginzburg, scrittore, studioso, fermo oppositore del Fascismo, organizzò nella sua cella di Regina Coeli un corso sui Promessi Sposi[2] ; mentre nell’ottobre dello stesso anno Pietro Pancrazi, studioso di letteratura italiana impegnato nella Resistenza, scriveva a Calamandrei: “Ho sempre pensato che se dovessi andare in galera e mi fosse consentito un solo libro, porterei quello ci trovi sempre quello che fa per te. Ti stimola all’azione, almeno all’azione morale quando sei troppo solitario e ti riporta a te stesso quando sei troppo preso e distratto dagli affari” [3].
In quei mesi di incertezza il capolavoro manzoniano veniva dunque inteso dai più come una sorta di "bene rifugio", un esempio insuperato di scavo antropologico, oltre che di affresco storico, capace di tenere viva nel cuore la scintilla della speranza. “Negli anni della Resistenza c’era chi portava i Promessi sposi nello zaino, o nella valigia di cartone con la quale si avviava verso il carcere, la tortura e la fucilazione”[4]. Un altro esempio? Lo scozzese Archibald Colquhoun, che aveva partecipato alla campagna di Sicilia e allo sbarco di Salerno, scoperti i Promessi Sposi aveva deciso di tradurli in inglese: la traduzione fu pubblica nel 1951, ebbe un enorme successo internazionale e soprattutto fu dedicata “Agli italiani del Secondo Risorgimento 1943-1945”[5].
Il ruolo svolto da I promessi sposi durante la Resistenza rappresenta uno dei tanti momenti in cui la letteratura può assumere il ruolo di guida e supporto in circostanze drammatiche e disperate. Manzoni per Ginzburg nel 1943 come Dante per Primo Levi ad Auschwitz nel 1944; e come Proust per lo scrittore e pittore polacco Joseph Czapsk nel gulag russo di Griazowietz durante l'inverno del 40-41.
Lo stesso vale per Emilio Sereni, capace di dedicare tempo e interesse allo studio di classici greci e latini durante la clandestinità e nel pieno della lotta di Liberazione. Ne parla Margherita Losacco nel suo bel libro Leggere i classici durante la resistenza: la letteratura greca e latina nelle carte di Emilio Sereni (Edizioni di storia e letteratura, 2020).
Dirigente del Partito comunista italiano, storico dell’agricoltura e teorico della questione agraria, Sereni fu anche un intellettuale coltissimo, appassionato di letterature greca e latina: Saffo, Eschilo, Sofocle, Euripide, Platone, Catullo, Lucrezio, Virgilio, Tibullo, Orazio, Plinio. “Qualche volta, le cose più vere per me le annoto sotto forma di excerpta”: così scriveva Sereni nel suo Diario, il 21 dicembre 1948[6]. Il volume di Losacco porta alla luce questi "passi scelti" da autori greci e latini, le sue traduzioni, i suoi appassionati e lucidi commenti. Essi sono tutti datati fra la fine del 1944 e l’aprile del 1945. Nei mesi più duri e concitati della Resistenza e della lotta antifascista, Emilio Sereni sembra cercare nella lettura dei classici “le cose più vere”: l’amore, la morte, il dolore dell’assenza, la pace della campagna, la libertà del sapere. Ai classici Sereni affida riflessioni intime e personali. Nelle sue trascrizioni pazienti del greco e del latino, nelle traduzioni colte e precise, nei suoi commenti attenti e commossi emerge il suo straordinario amore per la cultura :
“E’ buffo: quando vado declamando Saffo o Eschilo in greco, o dei versi giapponesi, o canto delle canzoni, la gente evidentemente pensa che lo faccio per posa o per sfoggio d’erudizione. Sarebbe difficile che pensasse altrimenti. Ma il buffo è che lo faccio proprio perché mi piace, e quando sono solo in macchina, tra Roma e Napoli, come quando ero solo in cella, in carcere, allora si che ci dò sotto a declamare e cantare, senza ritegno. Ma decisamente la colpa è mia non della gente”[7].
E così, mentre abbracciamo le parole di Sereni e di Ginzburg scopriamo che la lettura è un'autentica pratica di Resistenza.
[1] Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino, editori Riuniti, 1962, p.108
[2] Sulle letture manzoniane nel carcere di Regina Coeli ha riportato l’attenzione Salvatore Silvano Nigro: “intanto i suoi compagni, arrestati con lui, nel novembre del 1943, nella redazione dell’Italia libera, commentavano in cella, in un corso organizzato dallo stesso Ginzburg, I promessi sposi. Di quelle lezioni rimane un quaderno di Carlo Muscetta” (I promessi sposi d’autore. Un cantiere letterario per Luchino Visconti, a cura di S. S.Nigro e S.Moretti, Palermo, Sellerio, 2015, pp. 16-17). P. Montorfani, Le cose alla fine bisogna che si rincamminino.I promessi sposi in tempo di guerra (1939-45). Testi, Studi e Cronachette manzoniane, in Rivista di studi manzoniani Fabrizio Serra, Pisa, 2020, p. 221
[3] P. Frare, Leggere I promessi sposi, Il Mulino, 2016 p. 123 (paragrafo Un romanzo per la Resistenza, capitolo VII)
[4] S.S. Nigro, Il braccio della morte: arte in parola e arte in figura, Annali manzoniani, terza serie, i, 2018, p. 30
[5] P. Frare, Leggere I promessi sposi, op.cit. p. 123
[6] M. Losacco, Leggere i classici durante la resistenza: la letteratura greca e latina nelle carte di Emilio Sereni , Edizioni di storia e letteratura, 2020, p. XV
[7] Ivi, p.73