Il racconto di Marco

"Leggere è come rivivere, e dopo quell’esperienza qualcosa si introduce in noi per rimanervi per sempre."
Marco - ads
Anni 42, Londra, impiegato

Una mattina a New York

Doverosa premessa: sono divenuto un lettore appassionato e consapevole solo in età adulta. In merito all’infanzia ho ricordi nebulosi del mio rapporto con la lettura, che vivevo per lo più come una costrizione. Il mio primo ricordo di lettore potrebbe essere legato ad una collana di libri illustrati per bambini che, se non ricordo male (appunto!), si chiamava “Le storie del bosco”: sorta di saga immaginaria popolata dai soliti noti (animali, giganti, fate, gnomi, folletti ecc.). Devo dire tuttavia che la lettura mi appassionò molto, tant’è che vi tornai spesso su quelle pagine, con quella mania di reiterazione che spesso hanno i bambini! 

Se devo fare un esempio, come dire, più letterario, oltre agli immancabili “Pinocchio” e “Gian Burrasca” (appuntamenti fissi con le scuole elementari della mia epoca), vorrei scomodare il Gianni Rodari di “Venti storie più una” (serie di racconti fantastici fra fiaba e tradizione popolare) che mi leggeva mia madre prima di andare a letto. Ancora oggi mi ricordo certi passaggi di quei racconti, a dir poco suggestivi, e credo che molto di quello che sono divenuto poi sia scaturito proprio da quelle visioni, rimaste indelebili nella mia mente.

Per le mie letture dell’adolescenza devo ringraziare una lungimirante professoressa di lettere delle scuole medie che ci ha proposto un libro al mese per tre anni. La selezione era di gran gusto e, seguendo un percorso di complessità crescente, toccava grandi classici, e non solo per giovanissimi. E così, accanto a “Momo” di Michal Ende, “Lo Hobbit” di J.R.R. Tolkien, “Lo strano caso del dr Jeckyll e Mr Hide” di Robert Louis Stevenson, “Io, Robot” di Isaac Asimov, ci fu modo di imbattersi in opere di alta levatura autoriale come “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati, “1984” di George Orwell, “L’isola di Arturo” di Elsa Morante, “La luna e i falò” di Cesare Pavese (che poi avrei riletto anni dopo). Non nascondo che molto di quel che leggevo mi annoiava o mi risultava estremamente difficile da comprendere, ma ricordo anche di essermi grandemente appassionato alla Trilogia “I nostri antenati” di Italo Calvino (“Il visconte dimezzato”, “Il cavaliere inesistente”, “Il barone rampante”). Da parte mia, in quel periodo, aggiunsi i deliri visionari di Stephen King e Clive Barker che, insieme ai classici di Edgar A. Poe e H.P. Lovecraft, andavano ad assecondare una predilezione per tematiche orrorifiche che con il tempo avrei tuttavia abbandonato. 

Al Liceo (Scientifico), invece, l’amore per la lettura è fortemente scemato, forse per la poca passione trasmessa da una professoressa che preferiva aderire in modo rigido ai programmi ministeriali. Quanto all’ora di narrativa, nemmeno me la ricordo, tanto mi annoiavano le lezioni di italiano. Diciamo che in quegli anni preferivo esplorare la vita reale rispetto a quella letteraria. Unico rimpianto: non aver letto da adolescente “Il giovane Holden”! 

Detestare è una parola grossa. Nonostante per tutta l’infanzia e l’adolescenza mi sia approcciato alla lettura senza particolar fervore, non sono mai arrivato a detestare un libro in particolare, nemmeno il tanto vituperato “I promessi sposi” (mi chiedo ancora oggi che effetto mi avrebbe fatto leggere il capolavoro del Manzoni al di fuori delle ingessature scolastiche!). Alla stessa maniera, come non porto odio, non porto nemmeno amore verso quelle letture, tanto che se mi viene chiesto quali sono i miei autori preferiti, sono quelli che ho incontrato per conto mio, grazie alla mia curiosità e ai miei gusti. Beninteso, non darei colpa alla scuola in sé, ma al concetto di costrizione, che non si lega bene ad una passione che richiede impegno e costanza come quella della lettura.  

Come dicevo sopra, da un certo punto della vita in poi, e più esattamente a partire dallo scorcio finale degli anni universitari, la lettura mi ha accompagnato quotidianamente, rivestendo uno status di grande rispetto nel novero delle mie più grandi passioni. Parlo principalmente del mondo della narrativa, sebbene via via abbia anche toccato la saggistica. Ma nel romanzo, che esso sia scaturito dalla penna di un piccolo o di grande autore, del passato o del presente, a prescindere dalla provenienza geografica, ho trovato insegnamenti ben più arricchenti di quelli offerti in modo didascalico da un trattato volto alla divulgazione. Quando l’autore riversa se stesso nella sua opera, accade nella coscienza del lettore quel miracolo che potremmo descrivere quasi come un transfert psicoanalitico: leggere è come rivivere, e dopo quell’esperienza qualcosa si introduce in noi per rimanervi per sempre. I miei titoli preferiti? Tanti, troppi da citare. Fra essi mi piace sempre menzionare (in ordine sparso): “Lo straniero” (Albert Camus), “Viaggio al termine della notte” (Louis-Ferdinand Céline), “Guerra e pace” e “Anna Karenina” (Lev Tolstoj), “I fratelli Karamazov” (Fedor Dostoevskij), “Il processo” (Franz Kafka), “Lolita” (Vladimir Nabokov), “Infinite Jest” (David Foster Wallace), “2666” (Roberto Bolano), “La vita breve” (Juan Carlos Onetti), “Per chi suona la campana” (Ernest Hemingway), “Don Chisciotte della Mancia” (Miguel De Cervantes), “Tempo di vivere, tempo di morire” (Erich Maria Remarque), “Underworld” (Don LeLillo), “Psicomagia” (Alejandro Jodorowsky), “Moby Dick” (Melville), “Le avventure di Gordon Pym” (Poe), “Endurance” (Lansing), “L’uomo senza qualità” (Musil), “A sangue freddo” (Capote)

Avendo letto ininterrottamente per anni, devo dire che ogni libro, di per sé, è legato ad un pezzetto di vita. Di sicuro un libro che ricordo molte bene è stato “L’idiota” di Dostoevskij, autentico “punto zero” della mia vita da lettore, ove mi sono trovato a piangere e a ridere come mai mi era successo con un’opera letteraria. Ma se mi chiedi un ricordo in particolare, non scorderò mai quella bellissima mattina a New York City, la lunga fila in Central Park per accaparrarmi i biglietti dello spettacolo “Shakespeare in the park”. Per affrontare meglio la lunga attesa mi ero portato dietro la lettura del momento, quell’”Infinite jest” di David Foster Wallace che sarebbe presto divenuto uno dei miei libri preferiti. E quando un ragazzo dall’aspetto intellettualoide si complimentò con me per la qualità della lettura pensai: “New York, Shakespeare in the park, David Foster Wallace: ma chi c’è più giusto di me?”. 

Un libro che ho letto in semi-clandestinità esiste in verità ed è stato “Io uccido” di Giorgio Faletti, il classico best-seller da banco del supermercato che in genere aborro. Ma fu un regalo da parte di una persona cara che non potevo tradire, per questo mi sentii costretto a completare la lettura (peraltro lunga), ma stando bene attento a non reclamizzarla più di tanto in giro…

Per me la lettura è sostanzialmente evasione, o meglio, un mondo che si dischiude con un semplice gesto. Considera inoltre che il mio bagaglio letterario lo devo soprattutto alle moltissime ore di pendolarismo trascorse in treno, per questo di molte letture conservo una sensazione di movimento, di viaggio, umori legati alla destinazione di volta in volta prescelta  (un corso di studio, un colloquio di lavoro, una nuova occupazione, una trasferta, una gita di piacere): ho letto con grande attenzione e lucidità mentale, ho letto nel dormiveglia e persino ubriaco, e tutte le volte il contesto ha influito sulle mie sensazioni (e come potrebbe essere altrimenti?). Quanto alle biblioteche, non mi sono mai piaciute: quell’odore di chiuso, quei luoghi innaturalmente silenziosi, quasi inquietanti, mi hanno sempre ispirato più dovere che piacere. No, decisamente la mia vita di lettore si svolge là fuori, nel mondo, o al massimo nella penombra di camera mia, prima di chiudere gli occhi ed abbandonarmi nelle braccia di Morfeo…