Il racconto di Marirosa

"Avevo sviluppato una tale dipendenza dalle avventure di Salgari che è stato giocoforza imparare a leggere"
Marirosa, Lucca

Ho imparato a scrivere in prima elementare come tutti, ma prima di saper scrivere sapevo leggere. Tutto merito di un cugino di quattro anni più grande che era un vero divoratore di libri di avventure. Mi leggeva i libri di Salgari e su quelle storie ambientate in misteriose giungle malesi e tempestosi mari caraibici costruivamo i nostri giochi. E quando, arrampicandomi sugli alberi o pedalando a rotta di collo dietro di lui cadevo e mi sbucciavo le ginocchia mi intimava di non piangere perchè se l'avessi fatto mi sarei mostrata debole e allora Sandokan non mi avrebbe mai preso tra i suoi tigrotti. 

Poi un giorno, senza preavviso, mi ha detto che era stanco di leggere per me e che era tempo che lo facessi da sola. A quel punto avevo sviluppato una tale dipendenza dalle avventure di Salgari che è stato giocoforza imparare a leggere. Certamente nessuno dei libri che sono venuti dopo ha mai spalancato, com'è successo con quelle prime letture, il portale incantato attraverso cui proiettare la fantasia per creare interi mondi di immagini e di emozioni. E' per questo, credo, che non ho mai visto nessuna riduzione cinematografica o televisiva dei libri di Salgari: non potevo sovrapporre alle mie le rappresentazioni altrui. 

I russi, intesi come i classici della letteratura russa, li ho letti troppo presto; all'epoca ne ho percepito la potenza ma per comprenderne la profondità e la disperante ricerca del senso dell'esistere ho dovuto rileggerli, molti anni dopo. Ancora oggi ai tormenti morali e alle lancinanti contraddizioni di Dostojevskij preferisco Cechov che guarda all'umanità come un entomologo che osserva gli insetti al microscopio, attento e a volte anche commosso dalle difficoltà che i piccoli esseri affrontano nel loro procedere nel mondo, ma conservando sempre un professionale distacco: non emette giudizi nè offre soluzioni, sarà la storia e l'evoluzione a plasmare l'umanità futura. 

Non amo la letteratura americana, a parte Mark Twain e Steinbeck. A costo di sembrare blasfema penso che Hemingway sia largamente sopravvalutato. A 15 anni lo leggevo di nascosto, insieme a D.H. Lawrence, autori fieramente disapprovati dalla mia famiglia che non ne aveva una conoscenza diretta ma si uniformava all'opinione della borghesia benpensante. (A quelli che hanno oggi 15 anni debbono sembrare situazioni da medioevo).

Quello che non mi piace di Hemingway e degli scrittori americani contemporanei che alla sua scuola si sono formati, è il personalismo spacciato per universale, le minute storie individuali elevate a modelli validi per tutto il genere umano, i  personaggi che dialogano tra loro di cose irrilevanti e dicono banalità come se pronunciassero oscure verità socratiche.

E non mi piace come gli autori americani (del Nord) trattano il sesso: sembra di leggere un trattato di anatomia (l'esempio più fulgido è Michael Cunningham). Al contrario dei Sudamericani che sono maestri nell'alludere, suggerire, accennare, solleticando ed emozionando il lettore.

Leggo molto gli scrittori inglesi. Trovo che in tutti i generi letterari il livello medio dei libri inglesi sia molto alto. E non è stupefacente: in fondo il romanzo, nella sua forma moderna, l'hanno inventato loro e mostrano di avere una lunga pratica. Ho fatto spesso il gioco di quali libri vorrei avere con me se, come Robinson Crusoe, naufragassi su un'isola deserta. 

Nel corso del tempo e delle circostanze della vita la scelta ha oscillato tra i romanzi di Conrad (che si possono apprezzare al meglio solo viaggiando o vivendo sul mare), i racconti eleganti e surreali degli austriaci Schnitzler e Lernet-Holenia, le storie brutalmente reali e insieme poeticamente magiche di Marquez ed Alvaro Mutis. Ma da diversi anni non ho più dubbi. Sull'isola deserta porterei con me L'opera al nero e Le memorie di Adriano della Yourcenar.